mercoledì 6 febbraio 2008

Era una serata senza troppe parole.
Cercavo senza successo di leggere, o anche solo di dormire.
Ero partito alla mattina col buio velato blu-scuro ed ero tornato con il cielo dello stesso colore; pensai che sarei potuto restare quelle sette-otto ore immobile, nel parcheggio della stazione, con gli occhi chiusi, e mi sarei ritrovato esattamente lì: di fronte alla mia macchina, con lo stesso sfondo di nebbia che ti impedisce di distinguere l’alba dal crepuscolo.
Non esattamente, fossi rimasto lì avrei evitato di impuzzare il cappotto color cammello con gli odori del treno, avrei evitato di mangiare focaccia e pizzetta in due baracchini diversi - tanto per variare ma il sapore è esattamente lo stesso. Non avrei partecipato ad una lezione in cui il professore, a un certo punto, dopo aver lasciato uscire dalla bocca contornata di barba parole appassionate e, sì, un minimo profonde, si esibisce nel penoso tentativo del coinvolgimento: “Avete qualche domanda?”
“C’è anche un programma per non frequentanti?”
“Sì, in effetti mi ero lasciato prendere la mano dai contenuti, adesso parlerò un po’ anche della modalità d’esame. Avete qualche altra domanda?”
“Mi scusi, noi abbiamo una sovrapposizione di orari, possiamo non venire?”
“Non venite.”
“Grazie.”
Non avrei camminato rapidamente, come uno stupido automa, dalla stazione al civico numero 32 di via Zamboni e viceversa. E tanto altro.
La scelta di uscire dalla macchina, con il cielo ancora buio, era stata senza dubbio importante.
Era una serata senza troppe parole, dicevo.
Mi arriva un messaggio da un amico lontano: “L’aspetto negativo degli sms è che quando ti viene in mente una cosa da dire a una persona ti permettono di farlo.”
“Tu comunque non mi hai detto niente.” Gli rispondo.
“Infatti.” Ribatte lui.
Allora sollevo un attimo la testa dal libro che non sto leggendo e digito un nuovo messaggio: “Se hai voglia di dire qualcosa puoi sempre scrivere il messaggio e poi cancellarlo; scriverlo di nuovo e cancellarlo di nuovo. Lentamente te lo ricorderai a memoria e ripeterai le parole con un automatismo tale da arrivare a scordare ciò che effettivamente volevi dire. Allora farai senza mandarlo perché non avrai più nulla da dire.”
Schiaccio invio. Poi cerco il numero. Ma mi viene voglia di fare io stesso ciò che ho consigliato. Cancello tutto e scrivo di nuovo: “Se hai voglia di dire qualcosa puoi sempre scrivere il messaggio e poi cancellarlo; scriverlo e cancellarlo; scriverlo e cancellarlo. Di modo che le parole diventino automatismi e perdano completamente il loro significato. Alla fine ti accorgerai che non avevi effettivamente nulla da dire.”
È leggermente diverso. Provo di nuovo ma non riesco a ricordarmi le parole alla perfezione: “Se hai voglia di dire qualcosa puoi sempre ripeterlo in continuazione di modo da farlo diventare un automatismo. Sforzandoti per ricordare le parole con cui volevi dire ti accorgerai che non avevi nulla da dire.”
Bene. Potrei tentare ancora cercando di estrarre dalla memoria le parole giuste, o semplicemente potrei scrivergli: “Non abbiamo mai nulla da dire.”
Ci rifletto per un po’ di tempo. Poco, in realtà. E decido di appoggiare definitivamente il cellulare e di non mandargli nessun messaggio.
L’idea della ripetizione svelatrice di senso assume un certo fascino.

Era una serata senza troppe parole.
Cercavo senza successo di leggere o dormire.
Ero partito alla mattina accompagnato dallo sfondo blu scuro ed ero tornato con il cielo dello stesso colore; pensai che sarei potuto restare immobile nel parcheggio della stazione con gli occhi chiusi e mi sarei ritrovato lì: di fronte alla mia macchina, al buio.
Non esattamente, fossi rimasto lì avrei evitato di impuzzare il cappotto e di mangiare focaccia e pizzetta, non avrei partecipato ad una lezione in cui il professore, sconcertato dal disinteresse degli studenti, abdica e rinuncia a comunicar loro qualcosa. Non avrei camminato rapidamente dalla stazione all’Università e viceversa.
La scelta di uscire dalla macchina era stata importante.
Era una serata senza troppe parole, dicevo.
Mi arriva un messaggio: “L’aspetto negativo degli sms è che quando ti viene in mente una cosa da dire ti permettono di farlo.”
“Tu non hai detto niente.” Rispondo.
“Infatti.” Dice lui.
Allora digito un nuovo messaggio: “Se hai voglia di dire qualcosa puoi sempre scrivere il messaggio e poi cancellarlo; scriverlo e cancellarlo. Lentamente te lo ricorderai a mente e ripeterai le parole con una meccanicità tale da arrivare a dimenticare ciò che effettivamente volevi dire. Allora farai senza mandarlo perché non avrai più nulla da dire.”
Schiaccio invio ma mi viene voglia di fare io stesso ciò che ho consigliato. Cancello tutto e scrivo di nuovo: “Se hai voglia di dire qualcosa puoi sempre scrivere il messaggio e poi cancellarlo. Di modo che le parole diventino automatismi e perdano il loro significato. Alla fine ti accorgerai che non avevi nulla da dire.”
È diverso. Provo ancora ma non riesco a ricordarmi le parole alla perfezione: “Se hai voglia di dire qualcosa puoi sempre ripeterlo e farlo diventare un automatismo.”
Bene. Potrei tentare ancora sforzandomi di trovare il concetto più giusto: “Non ho nessun concetto da dirti.”
Ci rifletto e decido di appoggiare definitivamente il cellulare e di non comunicare con lui.
La ripetizione mi intriga.


Era una serata senza troppe parole.
Non riuscivo a fare nulla.
Ero partito alla mattina; il cielo è uguale alla mattina e alla sera. Potrebbero benissimo non esistere ne mattina ne sera, se comunque devono tornare ad essere identiche a loro stesse.
Se non fossi andato a Bologna il mio cappotto sarebbe ancora profumato, o per lo meno puzzerebbe della stessa puzza di ieri. Quello schifo di focacce e pizzette messe insieme con gli stessi ingredienti ad ogni latitudine, così come gli ortofrutta gestiti dai pakistani, sono decisamente alienanti.
A lezione non si impara nulla.
Era una serata senza troppe parole, dicevo.
Mi arriva un messaggio da un amico lontano: “L’aspetto negativo degli sms è che ti permettono di comunicare.”
Vorrei rispondergli che, ripetendo all’infinito la comunicazione la si annulla; pronunciando due o tre volte la frase più importante che si possa immaginare essa diviene soltanto un groviglio di parole alle quali si cerca di attaccarsi per ritrovare l’idea originale.
Non lo faccio.


È una vita senza parole.
Non riesco a fare nulla.
Ogni mattina si equivale, anche nel modo stupido in cui si ricercano indizi del fatto che si equivalga.
Vorrei comunicare con un amico ma non abbiamo nulla da dirci.
Non diciamo nulla.


Senza parole.
Non esistono neanche le idee.


Senza parole.